Quando scrivo, difficilmente mi fermo a riflettere sulle parole. Una ad una risalgono in superficie nel modo più spontaneo possibile. Per questo motivo quando scrivo una poesia sono comunque assai restia a chiamarla tale. Poesia. Si pensa subito a tutto ciò che stilisticamente compone una poesia, alla metrica, al ritmo creato dall'utilizzo di rime. Sono affascinata da questo tipo di struttura, ma sono incapace di incasellare i miei pensieri in qualcosa di rigido. Mi è difficile seguirli, sono come bambini capricciosi che hanno ricevuto troppa libertà, e ora che sono adolescenti è difficile tenerli a freno. Allo stesso modo mi piace che le mie composizioni siano altrettanto libere da schemi, che la scrittura prosegua sciolta come guidata da un filo che tirato poco a poco rivela uno dopo l'altro i componenti di una frase, poi di un'altra e un'altra ancora. Fino alla fine. E non esiste un momento particolare in cui mi siedo e scrivo. Arriva come un fulmine a ciel sereno, se mi è concesso l'utilizzo di questo banale modo di dire. Possono passare mesi senza che io tocchi un pezzo di carta e scriva. Venerdì scorso in treno l'avevo già tutta dentro. Ho solo dovuto cercare un pezzo di carta e una matita, e mettere giù in pochi minuti una piccola parte di me a parole.
La festa si ferma.
Il silenzio inebria
lo spazio della sala.
E l'ultimo invitato
se ne va.
Solo i musicisti
restano in scena.
Un ultimo accordo
si alza nell'aria.
E risuona,
ormai lontano
nella memoria degli uomini,
quale una melodia
dimenticata.
E' tempo di partire.
E l'ultimo musicista
se ne va.
L'accordo si spegne.
1 commento:
tu peux ben te plaindre je t'enlève de mon menu, je comprends rien!!
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